| Concrete And Gold (Roswell) Arduo confutare la tesi secondo la quale il rock “classico” non è da tempo colonna sonora e inno di chiamata alle armi per i giovani ribelli o almeno un po’ indisciplinati. Non è più sovversivo, non fa più paura, è addirittura preso per il culo in un terrificante spot della Vileda; con rare e per lo più sommerse eccezioni, continua a sopravvivere in apparente buona salute all’interno dei suoi pur ampi confini, ma con un’incidenza culturale e sociale ben diversa da quella della sua età dell’oro. È rimasta la musica, ovviamente legata ai rituali, ai cliché e alla mitologia che nei decenni passati ne hanno amplificato l’efficacia; ed è musica che bene o male continua a funzionare, in quanto rassicurante per gli “anziani” che non vogliono smettere di credersi giovani e comunque catartica, divertente e affascinante per le nuove schiere di adolescenti e post-adolescenti. In tale quadro, Dave Grohl sguazza che è una meraviglia: da quando ha avuto la scaltrezza, impacchettando la batteria e trasformandosi in frontman, di sfruttare il trampolino offertogli dal suo ruolo di ex Nirvana, si è dedicato con impegno, mestiere e grande abilità nel marketing a coltivare il suo diabolico piano: il gruppo rock in grado di mettere d’accordo un po’ tutte le tribù ottenendo il successo di massa. Quindi, in estrema sintesi: volume elevato, distorsione, riferimenti alla Storia più nobile (e meno nobile) del genere, melodie che acchiappano, testi con qualche velleità di comunicazione “alta” e non solo bassa, spettacolarità coatta (cum grano salis), contatti giusti, presenzialismo… eccetera, eccetera. E poiché vende dischi, viene trasmesso alla radio e riempie gli stadi, riuscendo persino a essere reputato credibile da parte della critica, c’è poco da fare: un qualche tipo di talento gli va riconosciuto. Nono album di studio dei Foo Fighters in ventidue anni di carriera, Concrete And Gold è un (altro) disco ideale per i rocker di bocca buona che vivono di rumore, giubbotti di finta pelle e gesto delle corna, ma che quando ai concerti arriva la ballatona sventolano accendini o smartphone. Il quasi quarantanovenne Grohl, al quale non manca la boria nascosta dietro l’ironia, l’ha descritto come “una versione alla Motörhead di Sgt.Pepper’s”, e al netto delle iperboli un minimo di senso c’è. Però, ecco, in questi dieci brani (iper)prodotti da Greg Kurstin (Sia, Tegan and Sara, Gwen Stefani, Adele, Kelly Clarkson…), che hanno tra gli ospiti – inifluenti ma cool – Justin Timberlake e Paul McCartney, si trova tutto e il contrario di tutto: hard di scuola ’70 e arrangiamenti sinfonici, metal (che un tempo era) estremo e pop vagamente psichedelico, Nirvana e Pink Floyd. Insomma, luoghi comuni mischiati senza soluzione di continuità in uno zibaldone volto a esaltare l’ingombrante ego di un musicista che sa di poter assecondare ogni suo capriccio. Peccato che, a dispetto della tanta carne messa al fuoco, la scrittura sia per lo più insipidamente pretenziosa, le architetture sonore pacchiane, le vere emozioni assenti. Il risultato è una rappresentazione studiata meticolosamente, che di primo acchito può strappare qualche sorriso ma che, a un’analisi più attenta, rivela la sua paracula artificiosità; andando oltre le apparenze, si impatta contro il fondale di legno dietro il quale c’è il mondo reale, come il Jim Carrey di The Truman Show. Tratto da Classic Rock n.59 dell’ottobre 2017
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